PERCORSO ULISSE: LEGALITA’. CULTURA E PEDAGOGIA MAFIOSA. A LEZIONE CON LAURA GRATA DI LIBERA MILANO
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Il modulo del Percorso Ulisse dedicato alla Legalità non poteva che aprirsi con la lezione – testimonianza di un’ospite d’eccellenza: Laura Grata di Libera Contro Le Mafie, Milano. Il 15 e il 16 aprile le Rondinelle hanno avuto la possibilità di incontrarla e di instaurare con lei una discussione sulle mafie e il fenomeno mafioso in Italia. Due giornate di lezione frontale e dibattito in classe per un’immersione ad alto tasso formativo ed emotivo. Un flusso continuo di nozioni e riflessioni, per arricchire le coscienze già consapevoli dei nostri giovani innovatori sociali.
Qui il contributo di Laura Grata alla formazione d’eccellenza del #QAR 2016/2017.
Di che cosa parliamo quando parliamo di mafia, di mafie?
Sistema di potere criminale, segreto, violento, in lotta contro il potere dello Stato, un potere che vuole farsi Stato, assumere la funzione principale, il controllo del territorio (controllo sociale, economico, politico). Un potere criminale, parassitario, che vuole sottomettere e sfruttare ogni iniziativa economica, che corrompe le leggi del mercato, impoverisce il Paese e le persone, distrugge l’ambiente; che elabora la sua cultura rapace e violenta, ma anche complessa e capace di elaborare miti (e questa è una delle ragioni della sua forza), in singolare sintonia con gli aspetti più aggressivi e per certi versi vincenti della cultura dominante. Tra le ragioni della sua forza, oltre “l’intimidazione e l’assoggettamento”, di cui recita l’art. 416 bis del codice penale, oltre l’inesauribile capacità corruttiva, è la forza organizzativa, il sistema ferreo di regole, che in un clima sociale sempre più lasco e infiacchito affascina molti, suscitando la convinzione di essere parte di un modo strutturato, vincente, di essere i migliori. La proposta mafiosa infatti offre risposte al bisogno di autoaffermazione dei giovani, tocca corde profonde, promette sicurezza, successo, denaro, appartenenza: tutto ciò in un presente che, oltre alle ideologie, ha perso anche il bisogno della politica, come riflessione e come servizio.
CULTURA MAFIOSA
Abbiamo detto: “una cultura rapace e violenta, ma anche complessa”, che fa propri elementi sia della cultura alta che di quella popolare e religiosa, una cultura “capace di elaborare miti”.
Innanzitutto il mito delle origini, (la narrazione delle origini produce un forte senso di appartenenza): ad esempio la mitologia ‘Ndranghetista di un’origine comune delle tre organizzazioni da Osso, Mastrosso e Carcagnosso, cavalieri spagnoli; o la leggenda dei Beati Paoli, che puniscono le ingiustizie, per Cosa Nostra; o ancora la tradizione del Frieno, primo codice camorrista del 1842. Poi ancora il mito del brigante, eroe positivo, appassionato e generoso, creato dalla narrativa romantica, che affascinai ceti popolari, ma che storicamente non ha niente a che vedere con la mafia. Poi la leggenda, coltivata ancora oggi, del mafioso forte e generoso, che protegge le vedove e gli orfani, che aiuta chi è in stato di bisogno e amministra una lungimirante e serena giustizia nella comunità di appartenenza. Per tutto il ‘900 giudici, politici, mafiosi negano l’esistenza della mafia. Tipico il sicilianismo: la mafia non esiste, il cosiddetto mafioso è un uomo forte e fiero, capace di farsi giustizia da solo. Si ammette la mafia come mentalità, la si nega come organizzazione.
Il rituale di affiliazione alla mafia, confermato fin dal 1872, è un altro elemento identitario importante, che legittima e sacralizza il rapporto associativo: la puntura sul dito, l’immagine sacra bruciata, la promessa di segreto, di mutuo soccorso, il giuramento di fedeltà, che si accompagna a una sinistra minaccia per gli “infami”, costituiscono un passaggio definitivo nella vita del giovane affiliato: “Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi” (G. Falcone). Fondamentale il rapporto con la religione: il mafioso è un parrocchiano osservante, generoso, che rispetta le proprietà fondiarie della Chiesa e contribuisce alle spese per la processione del anto patrono. Fino a tempi recenti, mafia e chiesa hanno coabitato senza conflitti, anzi: due poteri presenti e attivi sullo stesso territorio, solidali nella conservazione politica e sociale, contro modernità, liberalismo e comunismo. Comportamento uniforme di ossequio verso la religione e insieme pratica sacrilega, appropriazione dei simboli (battesimo, santino) e loro stravolgimento (ad esempio la vendetta nel giorno dell’anniversario della morte del congiunto assassinato).
Nonostante una nuova sensibilità diffusa dallo spirito del Concilio Vaticano II, nonostante i ripetuti pronunciamenti della Conferenza Episcopale Calabrese e dei vescovi campani e poi l’omelia del cardinale Pappalardo ai funerali del generale Dalla Chiesa (reazione dei detenuti dell’Ucciardone!), bisogna aspettare il maggio ’93 per l’invettiva di Giovanni Paolo II davanti ai templi di Agrigento. Infine il 21 giugno 2014, Papa Francesco, di fronte a 250.000 persone, nella piana di Sibari, ha detto: “La Chiesa deve dire no alla ‘Ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati”. Ogni ambiguità è divenuta impossibile.
PEDAGOGIA MAFIOSA
Nella famiglia mafiosa sono le donne (anche perché i mariti sono spesso latitanti o in carcere) che trasmettono il codice culturale mafioso (in primo luogo la legge del silenzio, l’omertà) e hanno quindi un enorme potere. La madre deve adoperarsi perché il figlio maschio assimili il modello paterno, rappresentante della mascolinità/virilità, ne coltiva l’immagine attraverso racconti mitizzati. Come madre di figli maschi, la donna partecipa dello “splendore del principio maschile” e impone alle figlie l’assimilazione della “Legge del Padre”, che significa sottomissione al maschio, accettazione dell’oppressione maschile come ovvia e naturale e identificazione della femminilità in prevalenza con la maternità.
“Alle donne dei mafiosi non è consentito quello che è consentito alle altre”. L’uomo d’onore, colui che sa difendere la propria terra e le donne della propria casa, è garante del loro comportamento sessuale corretto (pudore, verginità, castità), pena la sua sospensione dell’organizzazione, e lo farà con ogni mezzo, fosse anche l’uccisione di una sorella. Il matrimonio combinato (“portato”, endogamia di ceto) poi è parte essenziale della strategia politico-militare delle famiglie mafiose, soprattutto ‘ndranghetiste; le alleanze di sangue sono cruciali per la sopravvivenza del clan, a volte sanciscono la fine di una faida. Il prezzo più alto lo paga una donna, l’uomo può mantenersi l’amante.
A partire dagli anni ’70 invero, le donne di mafia, pur formalmente escluse “dall’onorata società”, hanno acquisito in certi casi un ruolo criminale significativo, hanno assunto nuove mansioni, (gestione economico-finanziaria, potere delegato in assenza dei titolari in carcere) per cui sono cambiate anche in parte le loro aspettative personali e ambizioni sociali. Nella famiglia mafiosa le donne coltivano l’odio, la contrapposizione allo Stato nemico e mantengono viva l’ideologia del “sangue si lava col sangue”, una vera “pedagogia della vendetta”, atto di riparazione cruento per respingere la vergogna dell’onore offeso. Si istituisce così una sorta di ordinamento giuridico alternativo a quello dello Stato inefficiente. La vendetta, “il miglior perdono”, può agire a distanza di tempo, è trasversale fino alla settima generazione. È la donna che tiene vivo il ricordo dell’onore offeso e spinge i figli ad agire nel giorno dell’anniversario della perdita dell’onore in un “rito in memoria del morto”. Il maschio della famiglia è un “infame” se non la pulisce dall’onta.
La famiglia di sangue, composta da un numero elevato di membri (massimizzazione della discendenza) è “allargata” a parenti in primo, secondo, terzo grado e coincide (per la ‘Ndrangheta e spesso per Cosa Nostra) con la famiglia di affiliazione. Familismo allargato appunto, che diventa un formidabile sistema di difesa e protezione dalle cosiddette debolezze e inefficienze statali, ed è inoltre base ideologica e strumento di una strategia offensiva di intimidazione e sopraffazione.
In questo contesto si instaura un sistema educativo potente, capace di provvedere ad una efficacissima socializzazione primaria, che radica in modo inamovibile consuetudini e valori alternativi e prevalenti rispetto ai valori della socializzazione secondaria, proposta dal sistema educativo. La scuola è un pericolo, l’oratorio è un pericolo. Francesco Pesce alla sorella Giusy, che manda il figlio all’oratorio: “ma tu sei pazza? Ma come lo stai crescendo?”, “Dove lo devo mandare?”, “Lo devi liberare nelle vigne, lo lasci la mattina e lo riprendi la sera”. Nelle vigne, a picchiarsi con gli altri ragazzini, primo esercizio di delinquenza. Soprattutto nella ‘Ndrangheta la struttura familiare rende il sistema mafioso particolarmente oppressivo e impermeabile all’influenza esterna: il vincolo di sangue crea una gabbia affettiva, emotiva, psicologica, che rende quasi impercorribile qualsiasi via di liberazione. La donna di mafia dunque è la custode dell’integrità, della forza e dell’impenetrabilità del nucleo famigliare: una specie di vestale della conservazione delle regole.
Questa coesione facilita i processi di successione: il potere va al maggiore dei figli maschi e così si evitano divisioni, faide o guerre intestine. Di più, anche quando la repressione giudiziaria ha apparentemente scardinato un sistema famigliare (recentemente 87 arresti nella famiglia Pesce) c’è sempre un nipote lontano che ne raccoglie l’eredità: il sistema di potere si ricostituisce.
In questa situazione la repressione penale, pur efficacissima in quest’ultimo periodo non basta, il problema è culturale. E allora la Procura di Reggio Calabria ha adottato un provvedimento estremo: il protocollo del marzo 2013. (“Liberi di scegliere”), definisce le condizioni in cui il giudice può decidere di sottrarre la potestà genitoriale, a protezione dei minori di famiglie mafiose. Si interviene, ai sensi della Convenzione Internazionale ONU, ratificata in Italia nel 1991, qualora si ravvisi, “nell’interesse superiore del fanciullo” una seria minaccia alla sua integrità psicofisica. Due sono i casi, ben specificati: 1) c’è stato indottrinamento di principi illegali, conculcati fin dalla più tenera età; 2) il minore ha commesso reati, indicatori di un’escalation criminale. Il provvedimento è temporaneo (limitazione o sospensione) e garantisce i rapporti con i genitori.
Questa decisione ha suscitato nel Paese un vivo dibattito a tutti i livelli.
Laura Grata
Libera Contro le Mafie, Milano