Da comunità educante a comunità narrante

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Da comunità educante a comunità narrante

Come trasformare in oro le difficoltà di questa quarantena con il Visual Storytelling e la scrittura generativa

 

 

 

Il tetto si è bruciato:
ora
posso vedere la luna.

 Mizuta Masahide
(1657 -1723)

 

Cosa succede se sradichi 27 ragazzi e ragazze di 17 anni dalla loro classe ad Arezzo e li rispedisci tutti a casa loro da un giorno all’altro? Ti ritroverai con 27 ragazz* arrabbiati, sparsi per tutta Italia e spaesati, iperconnessi e isolati.Uno scenario standard di vita in quarantena nell’era del Coronavirus. Passano le giornate, la formazione continua online. La scuola non si ferma. Ci si vede giorno dopo giorno, ma è tutto strano. Si fa fatica a concentrarsi, a gestire il tempo, a vivere gli spazi e le relazioni. C’è un diffuso senso di sofferenza e malessere. Come alleggerire il carico emotivo e la tensione che genera questa nuova quotidianità in cui i ragazzi si ritrovano a vivere? Come aiutarli nel sentirsi meno persi e dargli strumenti per definire nuovi orizzonti e prospettive?

 

Con le storie[1].

 

Gli strumenti narrativi possono venirci in soccorso e la scuola ha l’occasione di assumere sempre più la forma dello spazio della cura e non solo della formazione. Partendo da questo presupposto, dalla volontà di prenderci cura di questi giovani, insieme a Noam Pupko, il tutor di classe del #QAR, abbiamo pensato a quale fosse il metodo migliore per avvicinare tra loro queste Rondinelle strappate dalla Cittadella della Pace e ritornate prematuramente al nido di casa. Come aiutarli nella routine quotidiana a vivere le dinamiche del gruppo classe e rinforzare il loro senso di appartenenza alla comunità educante di Rondine.

 

Questione non facile, perché la prossimità non si crea a tavolino. La vicinanza si nutre giorno dopo giorno e le ferite, come quelle imposte dall’emergenza di questi tempi pazzi, possono essere un baratro in cui è facile scivolare.

 

Il primo passo, spontaneo e frutto di un sentire “di pancia”, è stato compiuto da me. Come formatrice affezionata ho deciso di scrivere agli studenti una lettera che raccontasse con ironia e sincerità la mia vita in quarantena. Una scrittura di getto in cui ho scelto di non nascondere dubbi, paure e fragilità. Di mostrare il mio lato più umano. Uno stimolo verso quella anti – fragilità[2] dove speravo di far approdare gli studenti. Dopo questa prima contaminazione era giunto il momento di tornare in classe insieme, nel segno delle storie. Qui è entrata in campo la scrittura creativa, la scrittura generativa. Nell’aula virtuale abbiamo rispolverato vecchi strumenti narrativi e affrontato nuove tecniche di storytelling. Abbiamo arricchito la cassetta degli attrezzi del narratore e stimolato un nuovo sguardo sul complesso mondo fuori e dentro di noi. Dopo un ripasso degli elementi e delle forme del racconto ho cercato di portare i ragazzi fuori dal loop emotivo di frustrazione in cui erano immersi, focalizzando la loro attenzione su un cambio di prospettiva. Gli oggetti della loro nuova quotidianità si sono trasformati in Oggetti Narranti, con pensieri, parole, amicizie, sentimenti tutti da raccontare. Oggetti semplici, del mondo domestico, capaci di racchiudere interi universi narrativi complessi fatti di ricordi, simboli e significati. In trenta minuti sono nati cassettoni parlanti, sedie gelose e armadi straniti. 27 piccole Madeleine de Proust[3]. Il primo esercizio per liberare la fantasia dal peso opprimente della quarantena lo avevamo fatto insieme. Per attraversare il confine tra realtà e fantasia. Grazie a questi oggetti narranti la voce degli studenti cominciava a venire fuori, più di quanto loro si rendessero conto.

 

Era il momento di fare il grande passo e “dare fuoco a tutta la casa”.

 

The burning house project: la mia storia – di quarantena – in 5 oggetti. Durante le vacanze di Pasqua ho chiesto agli studenti di fare un esercizio. Partendo dall’ Esperimento della casa che brucia[4] ho chiesto loro di concentrarsi su questo primo mese vissuto lontano da Rondine e di scegliere 5 oggetti narranti capaci di raccontare la loro storia. Un esercizio di visual storytelling per cercare, attraverso la leva della creatività, una nuova consapevolezza della trasformazione in atto, delle potenzialità inespresse e della vicinanza col gruppo classe nell’assenza. Il risultato è stato straordinario. Anche i più reticenti si sono riscoperti narratori. E via a cercare per casa scarpe da ballo, pettini e cuffie in una grande caccia al tesoro casalinga. Tutti a comporre il loro nuovo quadro di significato. Ad accostare ricordi, salvagenti e amuleti. Una fiera degli oggetti poveri. Una festa di oggetti magici.

 

Da comunità educante a comunità narrante capace di trasformare in oro le proprie ferite.

Il risultato più importante non è stato vedere quanto gli studenti fossero ricettivi e creativi se stimolati, ma quanto valore avesse generato questo laboratorio in termini di conoscenza e legame relazionale. Riconoscersi nel racconto dell’altro, sentire come le difficoltà siano condivise. Ognuno con la propria storia in 5 oggetti, unica ma risonante con le altre. 27 nuove carte d’identità per presentarsi al gruppo e conoscersi di nuovo. Più sereni e più uniti nell’affrontare le giornate che verranno. Tra debolezze e limiti che se condivisi fanno meno paura. Tra gioie e sfide, che condivise creano un nuovo senso di appartenenza.

 

Giovani artigiani della parola che costruiscono insieme giorno per giorno la propria nuova comunità. Studenti che sotto stress hanno scelto di non farsi schiacciare dalle difficoltà e dalla paura, ma hanno saputo prendersi cura delle proprie ferite trasformandole. Giovani che raccontando di sé e accogliendo le storie degli altri hanno scelto di ribaltare il concetto di limite, di affrontare i propri conflitti interiori e i conflitti nascenti con la propria classe. Giovani che come maestri dell’antica arte del Kintsugi[5] hanno deciso di riparare le loro ferite con l’oro delle storie, evidenziando le fratture anziché nasconderle.

 

Più forti, più uniti, più preziosi di quanto non fossero prima di riconoscere le proprie crepe.

 

 

Anna Martini
Docente di Storytelling – Percorso Ulisse
Quarto Anno Liceale d’Eccellenza a Rondine
a.s. 2019/2020

 

 

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[1] Gli strumenti narrativi non sono estranei alla comunità educante del #QAR. Ogni anno, ad ottobre, subito dopo l’inizio della scuola, affrontiamo il Modulo di Storytelling del Percorso Ulisse, dove i ragazzi imparano a costruire insieme la narrazione del gruppo classe, mentre singolarmente, ognuno di loro, lavora alla narrazione della propria storia. Imparano a dare un nome alla trasformazione che vivono e di cui si riconoscono autori, e lavorano – per sogno e per bisogno – alla trasformazione dei propri territori di provenienza, attraverso i progetti di ricaduta sociale con i cui torneranno a casa una volta finito l’anno scolastico. Impariamo insieme a raccontare l’avventura che intraprende ognuno di loro nel momento in cui accetta la sfida di Rondine, varca la soglia della Cittadella della Pace e inizia il proprio “Viaggio dell’Eroe”. Il Modulo di Storytelling è propedeutico nell’intero percorso formativo degli studenti: durante l’anno i ragazzi sono costantemente stimolati nel riflettere sulle proprie esperienze, consapevoli del valore e del circuito formativo e comunicativo che si attiva quando ognuno di loro condivide una propria testimonianza.

 

[2] Anti – fragile, come ci insegna il filosofo e matematico di origine libanese Nassim Nicholas Taleb – non è il contrario di fragile, non è resistente, né resiliente. Ciò che è resiliente resiste ai traumi e rimane identico a sé stesso; l’anti-fragile si prende cura della propria fragilità e migliora. Questa qualità è alla base di tutto ciò che muta nel tempo. L’anti-fragile sa crescere e prosperare nel caso e nell’incertezza, sa accogliere l’errore e matura nuovi strumenti per affrontare l’ignoto.

[3] Con Madeleine de Proust (a volte detta anche sindrome di Proust) si può indicare una parte della vita quotidiana, un oggetto, un gesto, un colore e in particolare un sapore o un profumo, che evocano in noi ricordi del passato, come una madeleine al narratore di “Alla ricerca del tempo perduto”.

[4] (https://theburninghouse.com/) “È notte, ti svegli all’improvviso e la tua casa va a fuoco. Devi uscire subito e puoi portare con te solo 5 oggetti. Cosa porti? Scegli 5 oggetti di cui non puoi e non vuoi fare a meno. Oggetti importanti, che hanno per te un valore, oltre quello materiale. Un valore fatto di sentimenti, emozioni, ricordi, relazioni. Oggetti che parlano di te. Oggetti che sono te. Dopo aver scelto questi oggetti radunali su un piano e scatta una foto che li racchiuda tutti. L’istantanea della tua storia in 5 cinque oggetti. Ora unisci le parole a questa immagine e racconta la tua storia e il legame di questi oggetti tra loro, il loro valore – simbolico o reale che sia. Raccontaci perché proprio questi sono i tuoi 5 oggetti narranti”.

[5] Il kintsugi (金継ぎ AFI: [kʲĩnt͡sɨᵝɡʲi]), o kintsukuroi (金繕い), letteralmente “riparare con l’oro”, è una pratica giapponese che consiste nell’utilizzo di oro o argento liquido o lacca con polvere d’oro per la riparazione di oggetti in ceramica (in genere vasellame), usando il prezioso metallo per saldare assieme i frammenti. La tecnica permette di ottenere degli oggetti preziosi sia dal punto di vista economico (per via della presenza di metalli preziosi) sia da quello artistico: ogni ceramica riparata presenta un diverso intreccio di linee dorate unico ed irripetibile per via della casualità con cui la ceramica può frantumarsi. La pratica nasce dall’idea che dall’imperfezione e da una ferita possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore.

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